Operazione antimafia contro il clan Scalisi ad Adrano. Agenti della Polizia di Stato della Squadra Mobile di Catania e del commissariato di P.S. di Adrano hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari di Catania, su richiesta della DDA etnea nei confronti di 14 soggetti, accusati, a vario titolo, d associazione mafiosa, nonché di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, estorsione e detenzione abusiva di armi, ricettazione, accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di detenuti, aggravati dall’essere stati commessi al fine di agevolare il clan Scalisi.
I provvedimenti eseguiti la notte scorsa fanno seguito ai fermi disposti dalla procura Etnea ed eseguiti dalla Polizia di Stato lo scorso 16 settembre, a carico di 10 soggetti appartenenti alla stessa compagine criminale, nei cui confronti il Giudice per le Indagini Preliminari, al termine dell’udienza di convalida, ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere.
I dettagli dell’operazione sono stati illustrati nella conferenza stampa di oggi alla quale hanno preso parte il procuratore capo Francesco Curcio, la sostituta Agata Santonocito, il Questore Giuseppe Bellassai, il capo della Mobile Emanuele Fattori e il dirigente del commissariato di Adrano Vincenzo Sangiorgio.

Le indagini hanno riguardato il periodo che va dall’ottobre 2023 fino al settembre 2025 e riguardano, oltre all’associazione mafiosa e a quella dedita al traffico e lo spaccio di stupefacenti, anche attività estorsive consolidate nel tempo, nei confronti di imprenditori edili e agricoli, commercianti, proprietari terrieri e venditori ambulanti, nonché intimidazioni consistenti nell’incendio di veicoli.
Nel corso delle attività è stato sequestrato, a riscontro, oltre un chilogrammo di stupefacente, tra cocaina e marijuana. Sono state inoltre rinvenute e sequestrate tre pistole, con relativo munizionamento, riconducibili al clan. Tra i soggetti denunciati figurano anche alcuni detenuti, che avrebbero comunicato dal carcere utilizzando telefoni cellulari detenuti illecitamente.
Il fermo dei 10 soggetti avvenuto la scorsa settimana scaturisce dalla necessità di scongiurare il piano omicidiario, in fase di realizzazione, che avrebbe ordito il soggetto ritenuto attuale reggente del clan Pietro Lucifora, per vendicare la morte del figlio Nicolò Alfio durante una rissa tra giovani a Francofonte nel Siracusano, per cui è stato arrestato un indagato. Un omicidio maturato in contesti estranei alla criminalità organizzata. Per l’agguato, che sarebbe dovuto essere commesso nel Siracusano, sarebbe partito un commando da Chieti utilizzando anche una falsa divisa da carabiniere e un furgone senza gps per evitare di essere tracciato.
Gli obiettivi del piano omicida non sono stati identificati dalla Procura di Catania. Dalle intercettazioni è emerso che il piano doveva avvenire a Francofonte gli ultimi giorni di settembre. Dalle attività tecniche è emerso che tra “i compartecipi del piano omicidiario figurassero lo zio del reggente della cosca, Pietro Schilirò, unitamente ad alcuni appartenenti al nucleo familiare di quest’ultimo, tutti residenti a Chieti”.
In particolare sulla base delle ultime risultanze investigative, ricostruisce la Procura di Catania, il nucleo familiare dello Schilirò, “avvalendosi della collaborazione di un ulteriore soggetto residente a Pescara, si stava adoperando per confezionare, per conto di Pietro Lucifora, una finta divisa riproducente la foggia di quella da carabiniere da utilizzare durante l’agguato, nonché per noleggiare un furgone non munito di localizzatore satellitare, necessario per eseguire il viaggio di andata e ritorno dall’Abruzzo alla Sicilia e per reperire armi”.
Secondo il progetto criminale, Lucifora si sarebbe creato “un alibi recandosi nel capoluogo teatino in occasione delle nozze dello zio con la compagna, previste per il 20 settembre, per poi eseguire il delitto tornando in Sicilia e ritornando in Abruzzo subito dopo l’esecuzione”. Il piano sarebbe dovuto essere realizzato con il supporto di Mario Lucifira, fratello del reggente del clan, che, contesta la Procura, “si stava adoperando anch’egli per trovare delle armi da utilizzare nel corso dell’azione cruenta”. Nel garage di Chieti in uso a Schilirò la polizia ha sequestrato due divise dalla foggia simile a quelle dell’Arma dei carabinieri, che erano funzionali all’esecuzione del piano omicida
Per l’esecuzione dei provvedimenti sono stati impiegati oltre 150 operatori appartenenti alle Questure di Catania, Napoli, Caserta, Nuoro, Sassari, Pavia, Siracusa, Udine, Taranto e Chieti, i Reparti Prevenzione Crimine di Catania, Palermo e Siderno, le unità cinofile della Polizia di Stato di Catania, Palermo, Napoli e Ancona ed un elicottero del Reparto Volo di Palermo.
Oltre ai provvedimenti restrittivi sono state eseguite in contemporanea anche perquisizioni ad Adrano, Catania, nonché a Chieti e Pescara, con la collaborazione delle locali Squadre Mobili.
Le azioni di ricerca hanno portato all’arresto in flagranza, nella notte del 16 settembre scorso, di due dei soggetti già attinti da provvedimento di fermo. In particolare, nelle pertinenze dell’abitazione del reggente del clan Scalisi sono stati trovati circa 550 grammi di cocaina, suddivisi in dosi, insieme a del materiale per la pesatura e per il confezionamento; nell’appartamento di un altro soggetto un revolver privo di matricola e mai denunciato.
“Ancora una volta le indagini hanno evidenziato come all’interno delle carceri i detenuti utilizzino abusivamente, ma continuativamente, utenze telefoniche non solo per mantenere rapporti con i sodali ma anche per pianificare ed organizzare nuove attività delittuose” scrivono dalla procura.
Sulla problematica il Procuratore Francesco Curcio è stato chiaro: “I criminali, anche quando sono in carcere, continuano a dirigere le attività delle organizzazioni utilizzando il cellulare. Non si limitano a mantenere rapporti con parenti o affiliati, ma ad organizzare, promuovere e determinare nuove attività criminali”.
Secondo Curcio “il nostro sistema carcerario è indifeso rispetto alle penetrazioni di cellulari. Probabilmente, a livello più elevato del nostro, chi ha la responsabilità amministrativa e politica della gestione delle carceri deve porsi il problema di schermare nel modo più opportuno gli ambienti penitenziari”. Il procuratore ha spiegato che i telefonini entrano dietro le sbarre con i metodi più diversi: “Arrivano con i droni, con i lanci dall’esterno o in altri modi. Ma se all’interno del carcere il telefonino non può essere usato perché l’ambiente è schermato, anche se riuscissero a entrare, il problema sarebbe risolto”.
Curcio ha messo in evidenza anche le conseguenze sul principio rieducativo della pena: “Diciamo che la pena deve avere una funzione rieducativa, benissimo, ma come li rieduchiamo se continuano a delinquere nel carcere utilizzando il cellulare?”. Infine un richiamo ai costi e agli sforzi della macchina giudiziaria: “Tutto questo vanifica le indagini. Si lavora per anni, si fanno processi che costano milioni di euro, il sudore della polizia giudiziaria e dei magistrati, e poi chi viene condannato finisce per fare esattamente quello che faceva prima. Ma vi sembra possibile?”