In principio fu l’Africa da cui nacque una storia fatta di schiavi, sangue e lavoro, duro. E poi vennero i ritmi, carichi di sofferenza e di malinconia che s’incarnarono in una musica, il blues, alla quale son debitori tutti i generi moderni. Fra questi uno, il jazz, nel tempo divenne musica colta, nella quale si cimentarono grandi musicisti che scrissero indimenticabili pagine del Novecento. Di jazz abbiamo parlato insieme a uno dei protagonisti della scena jazzistica italiana del secolo scorso, Lino Patruno che si è esibito a fine agosto a Mascalucia. Patruno nasce come cabarettista, autore di musica e regista. Con Pupi Avati, abbraccia una passione per il cinema ma resta sempre fedele al suo jazz.
Maestro Patruno, quando è scattata la molla che le ha fatto dire: “sarò un jazzista”?
La prima volta che ho sentito un brano jazz, mi trovavo in un cinema a Roma negli anni ’40. Sono andato a vedere un film all’Empire al viale Regina Margherita, il titolo era “Due ragazze e un marinaio” con Van Johnson, Jene Allyson e alla tromba c’era Harry James. Io non avevo mai sentito niente di simile nella mia vita, ero un ragazzino. Per la prima volta ho sentito jazz suonato alla tromba e sono rimasto folgorato. Da lì è nato il mio interesse per il jazz. Fra l’altro, negli anni ’50 il jazz andava molto di moda in Italia, ma non arrivava dall’America, arrivava dalla Francia, perché era la colonna sonora dell’esistenzialismo francese. Sidney Bechet era di New Orleans e si era traferito in Francia, vicino Parigi e quel movimento musicale che c’era in Francia, arrivò anche in Italia prima ancora che negli Stati Uniti. E io cominciai a innamorarmi del jazz.
Il genere jazz per i profani, dà l’idea di essere un po’ ostico e in qualche modo “di nicchia”. Un autorevole divulgatore come lei afferma che questo tipo di musica è una “forma di libertà”. Ci spiega come si conciliano questi due fattori?
È una “forma di libertà” perché quando si suona, si improvvisa. Quindi, più liberi di così?
Lei ama ribadire che il jazz è nato in America grazie a emigranti siciliani. Ci vuole raccontare com’è andata?
Dopo i misfatti Garibaldini, tornati in patria, la maggior parte di questi emigranti non aveva lavoro e c’era la fame. A Salaparuta, Girolamo La Rocca, caporal trombettiere, sotto il comando del generale Lamarmora, insieme al fratello Antonio si recò a New Orleans per far fortuna. Si sposò negli Stati Uniti, ebbe quattro figli fra i quali, l’ultimo, Domenico “Nick”, innamorato della cornetta che il papà teneva attaccata al muro. Con degli amici mise in piedi un piccolo gruppo che chiamò “Original Dixieland Jass Band”, jass con doppia “s” non doppia “z”. Nel 1917 incise il primo disco della storia del jazz, a 78 giri, che io posseggo in originale. Quello è stato il primo esempio di jazz.
Come ho precedentemente detto, la parola utilizzata era “jass” (con doppia “s”), La “Victor Talking Machine Company” (la casa discografica n.d.r.), affisse dei manifesti pubblicitari ma i ragazzini si divertivano a stracciare la “j”, per cui si leggeva “ass” – che vuol dire volgarmente “sedere” (quindi si leggeva “Original Dixieland Ass Band” che tradotto sarebbe come dire “la band del sedere Original Dixieland” n.d.r.) –. Quindi i dirigenti della casa discografica fecero una riunione e stabilirono che la doppia “s” doveva essere eliminata, si decise così per la doppia “z”. È così che nasce la parola “jazz”.
A questo proposito, lei tiene particolarmente alla pronuncia corretta, cioè “jezz” e non “jazz”.
Sì! In America si dice “jezz” e noi italiani dobbiamo dire “jezz” come in America!
Qual è il più bel ricordo della sua lunga carriera?
Ne ho avuti talmente tanti! Ma devo dire che ho ricevuto il premio più prestigioso per un film del mio caro amico, Franco Nero, di cui ho scritto le musiche e ho anche fatto una parte come attore. Il film era “Forever blues”, ho ricevuto il “Golden Globe” della stampa estera. Sono l’unico musicista al mondo ad aver ricevuto questo premio… È una cosa tutta d’oro eh! (ride).
Che tipo di rapporto le nuove generazioni hanno instaurato con un genere apparentemente difficile e distante dalla musica odierna?
Ma perché? Fanno musica oggi i giovani? Mi dispiace, io sono fermo agli anni ’60, ’70, non vado oltre. Non mi piace nulla di nulla.
E riguardo al cantautorato italiano, Dalla, De Gregori…?
Le dico i miei rapporti con la musica italiana; l’ho vissuto in prima persona perché io lavoravo per la “Ricordi”. I miei amici – che non ci sono più purtroppo – sono stati Fabrizio De André, Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Sergio Endrigo, Lucio Dalla… Lucio, non tanto come autore e cantante ma come clarinettista di jazz.
Ha avuto collaborazioni musicali con qualcuno di loro?
Lucio Dalla ha suonato con la mia orchestra. Al compleanno di Pupi Avati l’ho invitato a salire sul palco del teatro e ha suonato con noi. Ho scoperto io Lucio quando aveva sedici anni, a Bologna.
Riguardo invece alla sua carriera televisiva, ci vuole parlare della collaborazione con Enzo Tortora?
Mi chiamò lui, perché ci conoscevamo già e mi disse: “devo fare una televisione completamente improvvisata”, quindi, cosa c’è di meglio del jazz come musica improvvisata per un programma basato appunto sull’improvvisazione. È nata così. Adesso hanno fatto uno sceneggiato su Enzo Tortora. Il regista, Marco Bellocchio, mi ha chiamato, è venuto a casa mia, dopodiché le musiche le chieste a un altro… Le cose all’italiana, va be’! (ride)
Un ricordo più personale di Tortora? Ricordiamo tutti la vicenda drammatica che lo ha riguardato.
Eh, lo so, purtroppo. Cose che potrebbero succedere a chiunque, sono successe ad Enzo poverino. Quando fu scarcerato, mi chiamò e andai a trovarlo a casa sua, io abitavo a Milano in Via dei Piatti. Lui mi prese per mano, mi portò nel suo studio e mi disse: “Vedi Lino, questa è la biblioteca di un camorrista”. Poverino, persona meravigliosa. Avevamo 25 milioni di telespettatori tutte le sere e quindi sono molto curioso di vedere la ‘grande opera’ su “Portobello” di Marco Bellocchio, non vedo l’ora di vederlo! (ride)
“Lino Patruno jazz show” è uno spettacolo che sta portando in giro per l’Italia. Ci vuole parlare di questo progetto?
È il mio jazz di sempre. Io ho sempre avuto questo tipo di collaborazioni. Ho dei musicisti a Milano, in Sicilia, a New York, in Europa, ho musicisti dappertutto. Li chiamo a secondo del fabbisogno.
Il 28 agosto a Mascalucia, presso il parco Manenti, si è svolto il suo concerto. Sul palco con lei, Gianluca Galvani (cornetta), Alberto Asero (vibrafono), Salvo Pagnotta (contrabasso), Mauro Carpi (violino), Rosario Di Leo, (pianoforte), Antonio Petralia (batteria), con la partecipazione di Minnie Minoprio.
Minnie Minoprio, grande cantante jazz e un meraviglioso violinista siciliano, Mauro Carpi, lui è la copia dei Joe Venuti, il primo grande violinista della storia del jazz col quale io ho suonato negli ultimi dieci anni della sua vita. Veniva da Spadafora in provincia di Messina. Tutti i musicisti bianchi della storia del jazz, erano tutti siciliani.
Riguardo a Minnie Minoprio, lei crede che la televisione ha dato giusto risalto al suo talento come cantante?
Non glielo ha dato. Come presenza sì ma ha fatto poco comunque come cantante di jazz. Come tutti noi, abbiamo fatto poco per la televisione. Perché la televisione è impostata su altro, sulla stupidità. Non vorrei fare dei nomi però, certi comici di oggi fanno pena.
Ci sarà futuro per il jazz? E come si evolverà questo genere?
Mah, io lo spero, Se non finisce prima il mondo con la terza guerra mondiale, speriamo che il jazz continui con il suo operato. Comunque per me è la musica più bella del mondo, straordinaria, io vivo per il jazz. Una volta vivevo anche per le donne ma adesso non ho più l’età per amare, come dice la Cinguetti. Dovendo compiere novant’anni fra un paio di mesi…
Vi aspettiamo nuovamente in Sicilia
Io vengo molto volentieri in Sicilia perché, anche se sono calabrese, amo molto la Sicilia.
Buon jazz a tutti !