Il mese di luglio del 1943 è un mese tragico per la Sicilia, un periodo indelebile e tragico che vogliamo ripercorrere, per non dimenticare, grazie allo storico paternese Alfio Cartalemi Un ricordo che tocca fortemente tutti quei paesi e luoghi dove violenti furono i bombardamenti angloamericani. Una data il 10 luglio e luoghi diversi della Sicilia che segnarono l’inizio della liberazione dal Nazifascismo, ma anche un esoso tributo di sangue per la libertà la democrazia. Se per molti il 10 luglio fu l’inizio della fine del nazifascismo, è anche vero che fu un’operazione di frustrazione o “Moral Bombing”, come qualche storico ha battezzato “l’arma del dolore” applicata dagli americani. Negli occhi ancora spaventati il dramma dei bombardamenti a tappeto sulla popolazione civile. Nel luglio del ’43, ovunque c’erano devastazione e dolore; il Sud e soprattutto la Sicilia, dove c’erano arretratezza e poca cultura, per primi patirono i colpi maggiori.
Non bastano gli appelli per la pace; è necessario tramandare alle nuove generazioni gli orrori del passato. Sempre di più nei nostri tempi si rafforza la convinzione che le controversie tra i popoli non si devono risolvere con le armi, ma con negoziati e accordi. Questa convinzione nasce soprattutto dalla terrificante forza distruttiva degli attuali strumenti bellici e dal timore delle calamità e dei disastri che le armi provocherebbero. In questa nostra epoca, che si vanta della potenza atomica, è del tutto insensato pensare che la guerra possa ristabilire diritti violati.
Mai più guerra, ma dietro l’angolo morte e devastazione affliggono ancora l’umanità.
Quando gli inglesi trovarono la resistenza dei tedeschi sul ponte di Primosole, Il generale Montgomery che sperava di entrare a Catania entro il 14 luglio, trovò la forte resistenza davanti a quel ponte sul Simeto allora si convinse ad aggirare l’ostacolo. Decise di colpire in lungo e in largo ad ovest di Catania sferrando due offensive una più a sinistra verso Enna, Leonforte e Adrano, l’altra più centrale verso Sferro, Paternò e Misterbianco, proseguendo allo stesso tempo ad attaccare sotto Catania per non ridurre la pressione. Molte le testimonianze scritte di quel tragico ’43 vissute a Paternò. Di quei giorni lo scorso anno in occasione dell’80 anniversario ha fatto una raccolta il giornalista Alfio Cartalemi riportando in cronaca i racconti del professore Barbaro Rapisarda, Carmelo Ciccia, Pippo Virgillito, Giovanni Palumbo e tante altre storie di persone allora ragazzini, che hanno provato sulla pelle l’orrore della guerra.
Anche in questo 2024 sono passati pochi giorni da quel triste anniversario, 81 anni, e il pensiero va alle vittime ma anche ai sopravvissuti specialmente i bambini. Molti di quei bambini e bambine oggi non ci sono più. Chi è ancora in vita, giunto fino ai giorni nostri, spesso non riesce a raccontare l’esperienza di quei giorni drammatici. C’è chi ricorda bene e porta ancora addosso i segni di quei giorni. Una storia ripresa in questi giorni è quella del signor Salvatore Bonanno oggi novantenne.
Salvatore Bonanno, quel mercoledì del 1943, era un bambino di quasi dieci anni, nato il 10 aprile del 1934. Ricorda bene quando, all’inizio della settimana, un aereo angloamericano, sceso a bassa quota, fece il giro del paese azionando la mitragliatrice. Fortunatamente, non ci furono vittime, poiché i colpi andarono a vuoto. Il giorno dopo, forse lo stesso aereo, dal portellone lanciò sacche di volantini. Buona parte della popolazione lasciò il paese, rifugiandosi nelle campagne o nella vicina Ragalna. Nonostante gli avvertimenti, nessuno poteva immaginare il disastro che sarebbe arrivato dal cielo quel maledetto 14 luglio.
Il novantenne cresciuto nello storico Pojo (via Poggio) ricorda gli abitanti della zona. Il pastificio di don Enrico Privitera (oggi abitazione Vitellino) si affacciava su piazza Umberto e stendeva ad asciugare la pasta proprio sulla spianata dove c’è il rifornimento di benzina. La bottega di don Andrea (oggi palazzo Michelangelo) era dietro la chiesa sconsacrata di San Biagio. Dove oggi la famiglia Cavallaro ha il suo panificio, allora sede della XVI° compagnia artiglieria. “Quando i soldati uscivano cantavano così: ‘Siamo i fanti artiglieri, siamo i ventenni figli prediletti, figli dell’amore della gioventù’”. Quasi come se la vita gli fosse ruzzolata in fretta, il signor Bonanno ricorda i giorni della sua infanzia. “Io abitavo nella casa ad angolo con via Verginelle. Poco più sotto c’era la casa di mia nonna, in via Poggio n. 18, da tutti conosciuta come donna Milia a Marano. Era una delle poche donne della zona che sapeva leggere e scrivere. Anzi, ricordo bene quando leggeva lei le lettere che arrivavano dal fronte alle famiglie. Era sempre lei che scriveva e rispondeva ai soldati al fronte”.
Il suo pensiero va ai vicini di casa. “Eravamo attorniati da buone famiglie. Ricordo la casa più avanti della famiglia Sotera di Belpasso con quattro figli: Ciccino, Salvatore, Nino e la figlia Angelina, sposa di un carabiniere. Di fronte avevamo la famiglia Cavallaro e dirimpettai abitava la famiglia Bisicchia. Loro avevano una Balilla che gli fu sequestrata dai tedeschi. Poco più giù c’era la stalla con i cavalli e i muli che servivano ai militari. Lo stalliere era un polentone; lo ricordo bene, era un omone alto di cognome Orto. All’inizio di via Poggio c’era la casa della famiglia Tripi e poco più avanti l’abitazione degli ufficiali del XVI di artiglieria.”
All’epoca, come tutti i bambini, finito l’anno scolastico, il nostro Salvatore Bonanno andava “o mastru”.
Quel giorno mi trovavo in via Gessai dal fabbro don Bastiano Russo detto “frasciame” dove andavo come apprendista. Lui era andato a casa per la pausa pranzo, mi lasciava la bottega in custodia. Mia nonna da poco mi aveva portato quello che c’era da mangiare per pranzo. Erano da poco passate le 14,00 nel primo pomeriggio, oggi in giro si vede poca gente anche allora cerano poche persone in giro. All’improvviso una nuvola di aerei luccicanti partiti dalla Tunisia, cominciarono a scaricare il micidiale carico su Paternò. Partendo dall’inizio della strada dritta lanciavano bombe, quasi evitata piazza Indipendenza, ripresero i primi boati davanti la chiesa di san Gaetano, tutto il quartiere monte cenere. Le ultime bombe scoppiarono su via Poggio difronte l’abitazione della famiglia Bisicchia e in via Nazario Sauro dove fecero assai vittime. Mia nonna avvertito il pericolo fece in tempo a venire in officina e trascinandomi via velocemente mi portò verso casa. Prima di entrare una bomba caduta poco più di venti metri più avanti esplose. Grande fu la paura le schegge arrivarono dappertutto, una si conficcò sulla mia gamba, ecco ancora la cicatrice”.