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Cultura

Ascoltare la poesia per migliorare il nostro quotidiano

Benedetto Croce disse: “Fino a diciotto anni di età, tutti scrivono poesie, dopo restano a farlo i cretini e i poeti”. Il parallelismo fra i cretini e i poeti ci dà il senso di quanto sia libera la poesia e alla stessa maniera la mente di un cretino che agisce senza sovrastrutture e con alcuna malizia

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I poeti da sempre vengono considerati post-morte, eppure fare arte attraverso la poesia non solo è una delle più importanti cose, ma nell’atto di poetare vi è tutto l’Io della persona. La lirica, in maniera inopportuna, viene sottovalutata e dimenticata, come la vita di queste persone che si esprimono in versi per narrare le proprie storie e ciò che il loro tempo suggerisce. Per esempio, a scuola, quando la poesia viene sciupata e uccisa dai docenti che la usano semplicemente come esercizio per migliorare la memoria degli alunni, questo risulta molto riduttivo e svilente nei confronti di queste opere e dei loro autori.

Sarebbe un giusto compromesso se all’esercizio per potenziare i neuroni e sollecitare la memoria, si parlasse, si raccontasse ai nostri ragazzi perché quel determinato poeta ha sentito l’esigenza di esternare quelle parole. La poesia può essere la giusta via per leggere meglio la storia umana; è una luce che contrasta i tempi di guerra e poca umanità. Non si vuol fare credere che i poeti siano la panacea di tutte le avversità, ma di certo il ruolo che senz’altro rivestono è quello di aiutare noi umani a capire cosa sta succedendo intorno.
Un filosofo del calibro di Benedetto Croce disse: “Fino a diciotto anni di età, tutti scrivono poesie, dopo restano a farlo i cretini e i poeti”. Il parallelismo fra i cretini e i poeti ci dà il senso di quanto sia libera la poesia e alla stessa maniera la mente di un cretino che agisce senza sovrastrutture e con alcuna malizia. Ecco la parola magica: “Libertà”. La libertà che posseggono i poeti nello scrivere quei versi che ci parlano degli amori sofferti o dolori per qualcosa che loro e il cuore puro che hanno, resta il faro che ci serve per guardare avanti con il cervello più sgombro di cose banali e misere.
È bello citare la lode che compose San Francesco d’Assisi “Il Cantico delle creature”, perché è un poeta oltre a essere diventato un Santo come ben si sa, vissuto nel XIII secolo, già a quel tempo prestava attenzione alle meraviglie del Creato, e ad un Creato che non è solo Dono per chi crede in Dio, quindi bisogna rispettarlo, ma Francesco d’Assisi in questa sublime poesia, si rivolge all’intera umanità perché diviene un monito che oggi dobbiamo considerare in quanto strettissima attualità.
Altra poesia di risonanza con il tempo che stiamo vivendo, è quella del poeta Jacques Prevert dal titolo “Per te amore”. Il verso finale dice: “Sandato al mercato degli schiavi, non ti ho trovata”. Ecco un altro riferimento con la drammatica attualità; il pensiero può condurci alla donna vittima di violenza, finalmente il poeta francese in questione vuol vedere la sua donna amata e desiderata ma, al contempo, libera, senza appunto le catene.
La poesia ci mostra tutta la sua bellezza e magnificenza quando i suoi poeti si esprimono con versi in vernacolo. Di fatti il dialetto delle nostre stupende realtà regionali e la bravura dei poeti smaschera ancor di più la sua arte. È il caso di Trilussa, grandissimo poeta romano che scriveva soprattutto versi in chiave satirica, apprezzati da tutti. Durante il papato di Albino Luciani, fu lo stesso Pontefice che in un’udienza si servì della più celebre lirica di Trilussa intitolata “La Fede” per rendere più vivo e vicino il rapporto fra se stesso e i fedeli.
Il suono del dialetto rende molto più intimo cosa il poeta vuole esternare, per il semplice motivo che nel vernacolo è più passionale e soprattutto dentro il dialetto si ha la netta sensazione che il poeta non possa tralasciare completamente nulla del suo animo, il quale si svuota dentro a dei versi che lo rigenerano e a sua volta rendono un po’ più leggero e riflessivo il cammino di qualunque essere umano che si lasci trasportare dall’onda della poesia. Perciò, ascoltiamo meglio la poesia e contribuiamo a migliorare il quotidiano nostro.

Cultura

Ragalna, “La famiglia Chiara: Artisti per Vocazione”, il libro di Alfio Cartalemi

Torna con un nuovo lavoro dedicato al maestro di violino Rosario Chiara, in una lunga e appassionata intervista che diventa testimonianza di memoria viva

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A Ragalna nel 40° anniversario dell’Autonomia e con il Patrocinio del comune, si terrà  domani pomeriggio alle ore 19:15, presso il Palmento Arena, la presentazione del libro “La famiglia Chiara:  Artisti per Vocazione”, a cura del giornalista Alfio Cartalemi.

Dopo il volume destinato a Michelangelo Virgillito, pubblicato lo scorso anno, Cartalemi torna con un nuovo lavoro dedicato al maestro di violino Rosario Chiara, in una lunga e appassionata intervista che diventa testimonianza di memoria viva.

ALFIO CARTALEMI, L’AUTORE DEL LIBRO

Il giornalista, da anni impegnato nel recupero della memoria storica e culturale del territorio etneo, ci offre stavolta un ritratto autentico di una famiglia di musicisti, attraverso il racconto lucido e appassionato di Rosario Chiara, oggi ultranovantenne, ma ancora attivo e partecipe. Il maestro racconta la storia sua, del padre, del fratello e del loro profondo legame con la musica e con istituzioni prestigiose come il Teatro Massimo Vincenzo Bellini di Catania e il Liceo Musicale, oggi Conservatorio.

Serata presentata dalla giornalista Mary Sottile. Interverranno alla presentazione del libro Giuseppe Pappalardo, poeta scrittore, che ha curato la prefazione del volume; Norma Viscusi, poetessa e musicologa, amica del maestro Chiara; Giuseppe Montemagno, dottore di ricerca in Studi sul patrimonio culturale, docente di discipline storico-musicali e teatrali presso il Conservatorio “V. Bellini” di Catania, che relazionerà sul valore dell’opera.

La serata si concluderà con un momento musicale di grande suggestione: i violinisti Antonio Magrì e Angelo Di Guardo, ex alunni del maestro Chiara e oggi celebri artisti come “Violinisti in jeans”, ambasciatori della Sicilia nel mondo, renderanno omaggio al loro maestro con un’esibizione dal vivo. Un’occasione speciale per riscoprire la memoria collettiva attraverso l’arte e la musica, immersi nella bellezza e nella frescura di Ragalna.

 

 

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Cultura

Catania, Iulia torna a casa: la lapide che scuote la storia dell’Etna

Un’antica epigrafe cristiana riscrive la memoria di Catania e Hybla

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A Catania il ritorno di un’antichissima epigrafe cristiana. Ma dietro la tenerezza della bambina di Hybla si cela un messaggio potente: il passato non è muto. Bisogna saperlo ascoltare.

Il 17 luglio 2025, alle ore 18:00, il Museo Diocesano di Catania apre le sue porte a un evento che non è solo culturale, ma anche simbolico. Arriva finalmente a casa, dopo due secoli d’esilio a Parigi, la lapide di Iulia Florentina, una bambina morta a soli diciotto mesi e sepolta “davanti alle porte dei martiri”. È il cuore pulsante della mostra “Revelare. AGATA | rivive | IVLIA”, che sarà visitabile fino al 6 marzo 2026.

Ma dietro quel marmo freddo e silenzioso si nasconde una storia potentissima. Perché Iulia non era di Catania. Era nata a Hybla, un nome antico che riecheggia nelle fonti classiche e che oggi possiamo riconoscere con sicurezza in Paternò, sul versante sud-ovest dell’Etna.

E qui comincia il terremoto storiografico.

 

Un’epigrafe cristiana che riaccende la memoria di una città pagana

L’iscrizione di Iulia è, a oggi, la più antica testimonianza cristiana certa dell’area catanese. Fu scoperta nel 1730 a Catania, in una campagna appartenente a Ignazio Rizzari. Eppure, è molto di più di un reperto funebre: è un documento che fa luce su una fase poco conosciuta della Sicilia tardoantica, quando il cristianesimo stava conquistando gli spazi pubblici, le necropoli, i nomi, gli animi.

Iulia nata a Hybla”: cinque parole incise che sfondano il muro del tempo. Perché Hybla – o meglio Hybla Major – è l’antico nome di Paternò. Una città che oggi vive troppo spesso dimenticata nel presente, ma che ha radici millenarie, forti, profonde. Tuttavia, attenzione: non confondiamo la cristianità della lapide con le origini di Hybla.

La città in cui nacque Iulia era antichissima, e pagana. Qui, in tempi remoti, si venerava Venere. Il culto della dea — tra i più diffusi nel Mediterraneo precristiano — è testimoniato da reperti votivi e statuette, oggi conservati in musei siciliani e internazionali. Hybla fu luogo sacro ben prima che i Vangeli vi mettessero radici. La lapide di Iulia non cancella questa storia: la completa.

 

La bambina, i martiri e l’Etna: quando la pietra parla

La frase incisa sulla lapide – “davanti alle porte dei martiri” – è un capolavoro di sintesi teologica e topografica. Significa che a Catania, nel IV-V secolo, esistevano già luoghi di culto legati ai martiri, come Sant’Agata e Sant’Euplio. Non c’è nulla di retorico qui: questa è una prova concreta. Uno squarcio reale sulla vita religiosa dell’Etna in epoca tardoimperiale.

La piccola Iulia fu sepolta accanto a chi aveva dato la vita per la fede. Questo ci dice che la sua famiglia era cristiana, probabilmente convertita da poco. E che la fede, in quel tempo di confini mobili tra paganesimo e cristianesimo, non era ancora una tradizione, ma una scelta. Spesso una sfida.

 

Il ritorno: un segnale per il presente

Il ritorno della lapide è stato reso possibile grazie all’impegno congiunto dell’Arcivescovo di Catania, Mons. Luigi Renna, della prof.ssa Cristina Soraci, docente di Storia romana all’Università di Catania, della dott.ssa Grazia Spampinato, direttrice del Museo Diocesano, e di Mons. Antonino La Manna, vicario episcopale per la Cultura. Al loro fianco, l’Archeoclub d’Italia – sede di Ibla Major, e i Kiwanis Club di Paternò e Catania Est, da anni protagonisti nella riscoperta del patrimonio identitario etneo.

La mostra “Revelare” nasce proprio da questo sforzo collettivo ed è molto più di una semplice esposizione: è una sfida alla narrazione ufficiale. Perché la storia non è mai lineare, ma fatta di fratture, crolli e rinascite. “Revelare” ci scuote, ci spinge a guardare oltre, a far emergere ciò che la storia ha spesso nascosto o ignorato.

 

Perché Iulia ci riguarda?

Perché ci ricorda che i luoghi hanno una memoria. E che questa memoria può essere perduta, o negata, o deportata. Come accadde alla lapide, finita nei magazzini del Louvre nel 1825 e dimenticata per 200 anni. Ma ogni tanto – se abbiamo occhi per vedere e coraggio per riconoscere – la storia torna. Chiede ascolto. Chiede rispetto. Chiede che la verità, finalmente, venga rivelata.

Revelare, appunto…

 

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