Ad Aci Sant’Antonio, nella nuova arena dei Giardini Pubblici, si è svolta, lo scorso 27 agosto, l’edizione 2025 dei premi “USSI Estate”, promossa dall’USSI Sicilia guidata da Gaetano Rizzo. In quell’occasione un riconoscimento è stato attribuito alla giornalista e regista Clementina Speranza per il documentario Stai fermo lì, che racconta la vita del giovane artista iraniano Babak Monazzami, dove il campo da gioco diventa lingua comune e i diritti trovano voce.

Un premio che nasce in ambito sportivo ma che, nel caso di Speranza, diventa soprattutto conferma di un impegno civile: raccontare con onestà, rinunciando a qualsiasi artificio e restituendo al giornalismo la sua funzione di servizio. “Non si smette mai di essere giornalisti”, ricorda la regista. È da questa postura che è nato Stai fermo lì, non dalla caccia a una storia, ma dall’incontro con una testimonianza urgente.
Babak, volto del videoclip di Giusy Ferreri (2009) e artista poliedrico, ha consegnato alla telecamera un racconto diretto, fatto di documenti, immagini di repertorio, pause, commozioni. Nessun attore, nessuna voce narrante, nessun artificio, solo realtà, ordinata in montaggio e condivisa con lo stesso protagonista.
Il film rifiuta consapevolmente la logica delle “3 S” – sesso, sangue, soldi – che domina intrattenimento e informazione. Qui il dolore non diventa spettacolo, Babak parla di prigionia e torture con pudore, chiede persino di attenuare la scena in cui si commuove accettando lo status di rifugiato politico. Ma Stai fermo lì non è solo ferite: dentro ci sono anche luce, ironia, resilienza. C’è il costume da Jack Sparrow cucito per gioco, un programma di viaggi, la giornata del videoclip a Verona: frammenti di vita che resistono alla sopraffazione.
La vicenda attraversa Iran, Italia e Germania. Nato a Khorram Abad nel 1985, Babak cresce tra bombardamenti e divieti, fino a rischiare l’arresto “per un paio di jeans” o per aver ballato. Da ragazzo sogna il calcio: nel 2001 sfiora la Nazionale U18, ma viene escluso perché ritenuto “troppo occidentale” nell’aspetto. Nel 2008 fugge e approda a Milano, dove al Naga-Har di Italo Siena inventa persino una sport-terapia che attira l’attenzione di Inter e Juventus. Poi l’Europa inciampa: un errore della polizia tedesca lo priva dei documenti italiani e lo costringe a due anni di fermo in un campo rifugiati. Opportunità perdute, tempo rubato e domande senza risposta.
Il lavoro di Clementina Speranza non si limita a denunciare violazioni “altrove”. Racconta anche quelle che si consumano qui, nelle maglie della burocrazia e nei pregiudizi che giudicano prima di ascoltare. Smonta lo stereotipo del “rifugiato, clandestino, incompetente, infiltrato”, sì, perché Babak parla sei lingue, dipinge, espone, scrive e la sua biografia contraddice i luoghi comuni.

Dal 2023 il percorso del documentario è costellato di tappe importanti: il Premio per la Pace dell’Ambasciata Svizzeraal Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli; selezioni in Italia e all’estero; la proiezione del 29 novembre 2024 al Museo d’Arte Moderna di Ulsan (Corea del Sud); il Premio Cine Migrare 2024; il Premio Proiezione Speciale 2026 al Trapani Film Festival (18 agosto 2025). Oggi il film continua a girare nei festival – non essendo ancora disponibile al grande pubblico – e intanto si progettano proiezioni “di cura”: in un campo di badminton a Milano, in un campo da calcio, luoghi in cui Babak possa sentirsi di nuovo a casa.
Intanto una lettera aperta firmata da giornalisti e associazioni prova a fargli da scudo nella burocrazia tedesca. Su questo punto Clementina Speranza insiste, lanciando un appello ai colleghi giornalisti perché aggiungano la loro firma e si facciano parte attiva in una battaglia di dignità. E chissà, magari per contribuire a realizzare un piccolo sogno: un incontro con Roberto Baggio, l’idolo che insegnò a Babak le prime parole d’italiano davanti alle telecronache della Serie A.

Oggi, però, la sua condizione resta drammatica.
“La mia situazione – spiega Babak – è disperata. Dopo un’altra aggressione subita vicino Düsseldorf, ho cambiato città, ma resto in Germania senza tetto. I miei diritti continuano a non essere riconosciuti, sebbene le leggi prevedano protezione in casi come il mio. Sono sempre visto come straniero: non ricevo alcun supporto, e mi rendo conto che alcune nazionalità hanno più peso di altre. Questa condizione logora la mia salute. I diritti non sono uguali per tutti: vengo censurato, non ascoltato, e spesso sono gli stessi giornalisti e avvocati ad alimentare queste censure. Non so quale sarà il mio destino. Ringrazio Clementina Speranza per il coraggio di andare contro il sistema: merita questo riconoscimento. Spero ancora in un mondo migliore, dove i diritti siano davvero uguali per tutti, anche se oggi sembra un’utopia.”
Parole che spiegano meglio di qualsiasi analisi perché Stai fermo lì non è solo un film, ma un atto civile. Ricordano che i diritti si difendono qui e ora, e che la tutela non può arrestarsi davanti alle frontiere né piegarsi ai regolamenti.