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L'Intervista

S.M. di Licodia, Slow Food premia la produzione olivicola di Sergio Pappalardo

L’olio extra vergine di oliva prodotto ai piedi del vulcano si è distinto per proprietà organolettiche e origine

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Nella mappa di Slow Food Italia, che segna la migliore produzione olivicola del 2020, si trova anche l’olio “Don Peppino” prodotto ai piedi dell’Etna dall’azienda agricola “Sikulus” del giovane Sergio Pappalardo. Il riconoscimento di “Grande Olio Slow Food 2020” per l’azienda licodiese è arrivato da esperti e appassionati del settore,  che hanno scandagliato ogni angolo del bel Paese con l’obiettivo di aiutare il consumatore nella scelta dell’olio migliore davanti agli scaffali del supermercato o della bottega sotto casa.

L’ultimo di una scia di successi, che conferma la bontà unica e pregiata del prodotto, frutto di una scommessa imprenditoriale di una famiglia composta da 4 generazioni a confronto.

«Per noi di “Sikulus” – racconta il titolare, Sergio Pappalardo – il 2020 è un anno pieno di soddisfazioni, perché abbiamo avuto l’onore e il privilegio di ricevere i riconoscimenti più prestigiosi che riguardano il panorama dell’olio extravergine di oliva di altissima qualità; infatti il nostro olio extravergine di oliva IGP Sicilia “Don Peppino” ha ricevuto: le 5 gocce Bibenda (Fondazione Italiana Sommelier), il premio A.I.R.O.(Associazione Internazionale Ristoranti dell’Olio) come miglior IGP d’Italia, l’inserimento nella guida Oli d’Italia del Gambero Rosso e il premio Slow Food.

Quest’ultimo è particolarmente importante sia per la mia azienda che per il mio territorio, perché è la menzione che viene attribuita all’extravergine che si è distinto per particolari pregi dal punto di vista organolettico e che ben rispecchia il territorio.

Spero che il mio esempio possa essere utile a tutti i piccoli imprenditori e produttori locali, perché il nostro olio è un’eccellenza e bisogna valorizzarlo, attraverso l’amore per il proprio prodotto, lo studio costante e approfondito della cultivar, del territorio e dell’olivicoltura».

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Marco, il giovane infermiere licodiese in prima linea in un Covid Hospital lombardo

La testimonianza di chi lotta ogni giorno in trincea per salvare i positivi in rianimazione

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Tra le tante testimonianze, che arrivano dagli ospedali italiani nei giorni dell’emergenza Coronavirus, c’è quella davvero toccante di Marco Scandurra. Un giovane di 27 anni, originario di Santa Maria di Licodia, che dalla laurea nel 2015, ha prestato servizio come infermiere specializzato in diverse strutture sanitarie sia private che pubbliche della Lombardia.

Solo pochi mesi ha vinto il concorso per lavorare nella terapia intensiva neonatale di Varese, ma non ha avuto neanche il tempo di prendere servizio, che è stato subito catapultato nel reparto di rianimazione che sta ospitando pazienti Covid-19 della provincia lombarda. Qui, tutti e 12 i letti disponibili sono occupati da contagiati dal nuovo virus. I più giovani hanno 32 e 38 anni. «Non ho mai visto nulla del genere in 5 anni di professione, – ha detto al telefono Marco – e mai avrei pensato di vivere una emergenza di tale portata».

Il peso della situazione, lo si avverte dai silenzi, dalle pause, dal racconto lento del giovane. E lo si può vedere dai segni che la mascherina lascia sul suo volto dopo 8 ore di turno di lavoro.

«Come se di colpo tutto fosse cambiato, – dice Marco – è diverso il modo di lavorare e vedere chi mi sta accanto quando lavoro. Tutto comincia con la vestizione. Ci vogliono minimo 20 minuti per indossare correttamente i dispositivi di protezione individuale e bisognare essere almeno in due.  Ognuno diventa guardiano dell’altro. Non sono concessi errori, distrazioni. Nulla è concesso. Bere, toccarsi, liberarsi persino respirare. Lo si fa lentamente, collegando mente e corpo. Perché insieme in quella tuta, sotto il camice, dentro la mascherina, sotto la visiera e caschetto, tutto deve essere mirato a far si che mente e corpo non cedano».

Marco quando finisce il turno non ha nessuno a casa ad aspettarlo, vive da solo, mentre i suoi genitori, sua sorella, suo fratello e i suoi nipotini sono tutti in Sicilia. «In questo momento – sottolinea il giovane – sono davvero felice di non avere nessuno accanto a me, altrimenti sarebbe stato angosciante vivere con il terrore di poter portare ai miei cari una potenziale carica di virus. Perché a noi non fanno il tampone. Molti dei miei colleghi che hanno moglie e bimbi piccoli o genitori anziani si stanno organizzando a lasciare le famiglie. Ed è molto difficile». 

Nella speranza che tutto questo finisca presto il giovane lancia un appello: «Restate a casa, vi assicuro che è dolorosovedere pazienti intubati, a torso nudo, che vivono solo grazie alle macchine e non muovono più il corpo in attesa che passi il culmine della crisi senza avere accanto il conforto delle persone amate». L’unica certezza di Marco in questo difficile momento rimane quella di non voler cambiare mestiere.

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